Coronavirus – Gli esperti rispondono
Cinquanta domande che meritano una risposta
Coronavirus 50 domande che meritano una risposta
PREVENZIONE
Michele A. Riva — Ricercatore di Storia della Medicina, esperto di prevenzione, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Perché è importante lavarsi le mani?

Per prevenire il rischio di infezione da Nuovo Coronavirus è prioritario curare l’igiene delle mani. Il virus si diffonde per via aerea non solamente mediante starnuti, ma anche contaminandosi le mani con le secrezioni delle mucose degli occhi e della bocca. Per questo motivo, oltre a coprire bocca e naso, in caso di starnuto o tosse, è fondamentale evitare di toccare occhi, naso e bocca. Le mani contaminate possono trasmettere il virus a un’altra persona, un collega o un familiare. Lavandosi le mani si evita che il virus venga trasferito, inconsapevolmente, ad altre persone. Una buona igiene delle mani è necessaria ogni volta che si è stati in luoghi pubblici, bagni in primis, ma anche dopo aver usato un mezzo di trasporto pubblico (bus, taxi, auto etc.) o dopo essere stati in luoghi molto affollati, come palestre, supermercati, sale d’aspetto, cinema. A seguito di permanenza in uno spazio pubblico, è necessario lavarsi le mani, soprattutto dopo aver toccato pulsanti dell’ascensore o maniglie delle porte. Le operazioni di lavaggio delle mani, apparentemente banali, non sempre vengono effettuate correttamente. Capita che venga utilizzata una quantità inadeguata di sapone o che il tempo di detersione e risciacquo sia troppo breve. Come indicato dal Ministero della Salute, occorre utilizzare sapone (meglio quello liquido rispetto alla saponetta) e acqua corrente, preferibilmente calda. Dopo avere applicato il sapone su entrambi i palmi delle mani, occorre strofinare sul dorso, tra le dita e nello spazio al di sotto delle unghie per almeno 40-60 secondi. Dopo avere risciacquato abbondantemente con acqua corrente, si asciugano le mani possibilmente con carta usa e getta o con un dispositivo ad aria calda. All’interno dell’abitazione, sarebbe opportuno avere un asciugamano personale pulito dedicato a ogni membro della famiglia. Se non sono disponibili acqua e sapone, è possibile utilizzare anche un disinfettante per mani a base di alcol al 60 per cento.
Serve andare in giro con la mascherina?
L’uso delle mascherine è solo una delle tante misure che possono essere attuate per proteggersi nei confronti dell’infezione da Coronavirus. Le mascherine, però, risultano efficaci solamente quando sono utilizzate in combinazione con un frequente lavaggio delle mani. Questi dispositivi vengono spesso usati in maniera scorretta. Prima di tutto la mascherina è monouso e, come tale, dovrebbe essere sempre sostituita, ogni volta che viene tolta, anche solo per poco tempo. Al momento della rimozione, bisogna sfilarla come se fosse contaminata e quindi non bisogna mai abbassarla dalla zona della bocca, ma è necessario rimuoverla dagli elastici laterali, altrimenti si rischia di contaminare le mani. È sbagliato anche togliersi la mascherina per rispondere a una telefonata, o per grattarsi il naso, anche se poi viene subito indossata. Tutto questo rende l’uso della mascherina totalmente inutile. Inoltre, le persone credono di essere protette, anche se non indossano correttamente la mascherina. Si genera, quindi, un illusorio senso di sicurezza che può essere controproducente. L’uso della mascherina, dando una percezione errata di essere completamente protetti, porta le persone ad abbassare il livello di guardia e mettere in secondo piano altre misure più importanti, come il lavaggio delle mani. L’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Ministero della Salute non raccomandano alla popolazione generale di indossare la mascherina per la prevenzione dell’infezione da Coronavirus, a meno che non siano presenti sintomi di malattie respiratorie. L’obiettivo di utilizzare una mascherina non è, quindi, quello di proteggere chi la sta indossando, ma le persone che le stanno intorno. In questo caso è sufficiente la classica mascherina chirurgica, che ha la funzione di schermare le goccioline che escono dalla bocca o dal naso di chi la porta, mentre non funziona da barriera d’ingresso. Le maschere tecnicamente conosciute con la sigla FFP3, certificate per riuscire a filtrare almeno il 95 per cento delle particelle sospese nell’aria, devono, invece, essere utilizzate da operatori sanitari addestrati, quando trattano casi sospetti o certi di infezione da Coronavirus.
I mezzi pubblici sono pericolosi?
Tutti i luoghi particolarmente affollati possono facilitare la trasmissione del virus tra persone. I mezzi di trasporto pubblici possono diventare a rischio, nel momento in cui sono molto affollati. In una grande città metropolitana, il tasso di trasmissione del virus è fino a sei volte maggiore tra coloro che utilizzano i mezzi pubblici. Per quanto riguarda treni, bus, tram e metropolitane, il rischio più elevato si riscontra tra i pendolari che devono fare lunghi viaggi o attraversare stazioni di interscambio molto affollate. Viaggiare al di fuori degli orari di punta, quando è possibile, potrebbe essere un modo per ridurre il rischio di infezione sui mezzi pubblici di superficie e in metropolitana. Per ridurre il rischio, è, però, ancora una volta fondamentale lavarsi le mani o usare un disinfettante a base di alcol, dopo essere scesi dal mezzo pubblico o appena arrivati nel luogo di lavoro. È altrettanto importante, durante il viaggio, evitare di toccarsi il volto o mangiarsi le unghie. Negli ultimi anni, l’aumento dei viaggi aerei ha facilitato la diffusione delle infezioni a livello globale. Le aree dei controlli di sicurezza degli aeroporti rappresentano un’altra zona ad alto rischio. I vassoi dove vengono posizionati gli oggetti, provenienti dalle tasche delle persone e frequentemente maneggiati, vengono utilizzati da migliaia di individui e sono raramente lavati. Ci sono altri punti critici negli aeroporti, dove si può verificare la trasmissione dei virus, quali ad esempio i corrimano delle scale mobili, i braccioli dei sedili nelle sale di attesa e il frequente passaggio di mano in mano dei biglietti aerei. Nella cabina dell’aereo, le infezioni possono essere ridotte stando seduti al proprio posto per tutta la durata del volo, laddove possibile e non controindicato dal rischio embolico. In questo modo si evita la contaminazione da parte di altri passeggeri. Il ricircolo d’aria in cabina sembra, invece, non essere così pericoloso, grazie alla presenza di filtri sviluppati appositamente per gli aerei.
Qual è la distanza da tenere per proteggersi il più possibile da eventuali contagi?
Per queste infezioni è opportuno tenere una distanza di due metri da una persona che sta tossendo o starnutendo. Questa misura è legata al fatto che quando qualcuno starnutisce o tossisce libera in aria goccioline, provenienti dal naso o dalla bocca, che potrebbero contenere il virus. Se si è troppo vicini, si rischia di inspirare queste goccioline e l’infezione virale, se la persona che tossisce ha la patologia. Uno spazio superiore a un metro tra due persone viene generalmente definito come «distanza sociale» e viene generalmente mantenuta in una comunicazione normale tra conoscenti o tra colleghi nei luoghi di lavoro. Si differenzia dalla «distanza personale» tra amici e dalla distanza «intima» che sono generalmente inferiori al metro. Negli uffici aperti al pubblico, la distanza mantenuta può essere superiore ai tre metri e mezzo (distanza «pubblica»). Generalmente nei servizi di front-office di aziende pubbliche e private, la presenza di un vetro tra operatore e cliente facilita la protezione di entrambi i soggetti dalla trasmissione del virus. A questo proposito, è bene ricordare che, tra le raccomandazioni suggerite a livello nazionale e internazionale per ridurre la diffusione del Coronavirus, non figura espressamente l’evitare le strette di mano, un’usanza sociale profondamente radicata alla base dei rapporti umani, soprattutto nei Paesi occidentali. Nonostante questo, dall’inizio dell’epidemia, molte aziende private stanno vietando questa usanza al loro interno. In realtà, se le mani vengono lavate sempre con frequenza, se si sta attenti a non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani e se le persone starnutiscono su un fazzoletto o nella piega del gomito, si minimizza il rischio e non diventa necessario vietare le strette di mano.
Sul luogo di lavoro quali sono le misure di prevenzione più efficaci?
Come già più volte ricordato, l’igiene delle mani e delle secrezioni respiratorie rappresenta l’intervento prioritario per prevenire il rischio di infezione da Nuovo Coronavirus, sia nella vita privata sia sul luogo di lavoro. Le aziende possono collocare agli ingressi degli edifici o nei bagni dispositivi per l’erogazione di gel disinfettanti per le mani, al fine di incentivare questa pratica. Le altre misure di prevenzione ricalcano quelle presenti nel decalogo messo a punto dall’Istituto Superiore di Sanità e dal Ministero della Salute. È importante che tutti i lavoratori siano a conoscenza di queste informazioni e che gli enti pubblici e privati diffondano queste buone pratiche. Le aziende possono incentivare forme di lavoro agile e modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa, favorendo tra i destinatari di queste misure soggetti che presentano patologie che li rendono maggiormente esposti al contagio, oltre a coloro che devono usare i mezzi di trasporto pubblico per lunghi tragitti. Inoltre, durante la fase epidemica, è opportuno privilegiare riunioni in modalità telematica. È possibile frequentare i bar e le mense aziendali, così come gli spazi comuni, come il locale ristoro con i distributori automatici, però è bene evitare l’affollamento di questi luoghi, perché una concentrazione elevata di persone potrebbe aumentare il rischio di trasmissione del virus. In questo periodo di emergenza, ad esempio, potrebbe essere utile per i lavoratori distribuirsi su tutto l’orario di apertura del bar o della mensa aziendale. Questo può essere fatto mettendosi d’accordo tra colleghi per evitare di andare a bere il caffè o pranzare tutti insieme, recandosi invece singolarmente, a turno. Sarebbe utile, inoltre, non stare troppo a lungo in questi spazi, per consentire ad altre persone di accedervi. Sono piccoli accorgimenti che evitano l’affollamento dei locali e aumentano la sicurezza e la protezione di tutti.
SINTOMI
Sergio Harari — Pneumologo, Ospedale San Giuseppe di Milano
Quali sono i sintomi del Coronavirus?
I sintomi di esordio sono quelli di un’infezione respiratoria a carico delle alte vie aeree (naso, seni paranasali, bocca, faringe e laringe), quindi febbre – da qualche grado a molto marcata –, stanchezza, tosse secca. Alcuni pazienti sviluppano anche dolori muscolari e ossei diffusi (come quando si soffre della classica influenza), congiuntivite, congestione nasale, naso che cola, mal di gola. Talvolta, come in molte infezioni virali, si possono registrare anche sintomi gastro-intestinali, come ad esempio diarrea e disturbi dell’alvo. Tutti questi sintomi sono, nella gran parte dei casi, di lieve entità e si sviluppano gradualmente nel tempo. È bene poi ricordare che un importante numero di soggetti contrae il virus senza manifestare alcun sintomo, si tratta dei cosiddetti «portatori sani». L’interessamento delle basse vie respiratorie (trachea, bronchi e polmoni) costituisce un segno di gravità. In questi casi la complicanza più seria è la polmonite, che si accompagna a sintomi molto più marcati e persistenti: tosse per lo più stizzosa e irritativa, astenia profusa, febbre alta, mancanza di fiato, affaticamento respiratorio. In pochi casi, in presenza di polmonite, sono stati segnalati anche cefalea ed espettorato con sangue.
Che differenza c’è con l’influenza stagionale o una malattia da raffreddamento?
Dal punto di vista dei sintomi le patologie non sono immediatamente e facilmente distinguibili. Come abbiamo visto nelle fasi di esordio e nei casi a spontanea evoluzione favorevole, che per fortuna sono la stragrande maggioranza, decorso e sintomi sono molto simili a quelli di una classica influenza. Peraltro, anche l’influenza spesso si complica con polmoniti, ma per lo più in questi casi si tratta di polmoniti da sovrainfezione batterica, raramente scatenate direttamente dal virus influenzale. Nei casi di COVID-19 è invece proprio il Coronavirus la causa dell’interessamento polmonitico. Per queste ragioni, quando un soggetto presenta sintomi influenzali o da raffreddamento persistenti e significativi, si procede sempre a eseguire in prima istanza il tampone per i virus influenzali, il cui esito è poi disponibile in poche ore, mentre, quando il sospetto clinico è forte o nei casi che necessitano un ricovero ospedaliero, o che presentano quadri di polmonite alla radiografia del torace, si associa quello per il Coronavirus. I segnali che devono suggerire di contattare il proprio medico di medicina generale o i numeri di assistenza ora attivati non sono quindi qualche linea di febbre accompagnata dai sintomi che abbiamo descritto e che sono poi quelli delle classiche sindromi da raffreddamento, ma la persistenza della sintomatologia dopo 48-72 ore dall’esordio (sebbene il decorso dell’attuale influenza sia comunque di 3-5 giorni) e/o l’eventuale esposizione a contatti a rischio diretti e indiretti con persone con accertata infezione da Coronavirus.
Quali sono i sintomi più allarmanti?
I sintomi più allarmanti sono legati alla complicanza più seria, ossia l’interessamento delle basse vie respiratorie, rappresentato dalla polmonite. Quindi tosse prevalentemente stizzosa che poi può diventare produttiva (con catarro), senso di costrizione toracica, febbre anche alta, affaticamento respiratorio, mancanza di fiato, raramente presenza di sangue nel catarro. Sono soprattutto la persistenza della febbre e i sintomi respiratori quelli ai quali è bene porre particolare attenzione.
Una radiografia del torace può essere molto utile per diagnosticare un’eventuale polmonite. È bene però sapere che sia la radiografia del torace che la TAC (in questi casi si effettua con la metodica dell’alta risoluzione e senza mezzo di contrasto) non aiutano molto a porre una diagnosi differenziale tra le polmoniti causate da COVID-19 e quelle sostenute da altri microrganismi. Infatti i quadri radiologici di interessamento polmonare da Coronavirus possono essere molto variabili e indistinguibili da altre infezioni. Il tutto va quindi analizzato sulla scorta del contesto clinico e dei dati clinici e di laboratorio disponibili.
Perché colpisce soprattutto le vie respiratorie?
La famiglia dei Coronavirus, alla quale appartengono anche i virus che sono stati responsabili della SARS e della MERS, ha un particolare tropismo per le mucose delle vie respiratorie, inoltre si replica nelle basse vie aeree. Tradotto in termini semplici, vuol dire che questi virus prediligono attaccare quelle specifiche parti del nostro organismo. Esistono delle spiegazioni scientifiche per questo, legate a particolari affinità del virus per certe strutture e per certi recettori presenti nelle vie respiratorie. È un’affinità che si estrinseca anche verso altre mucose, ad esempio le congiuntive: è per questo che le congiuntiviti spesso accompagnano l’esordio della malattia. D’altra parte, i Corona non sono gli unici virus a prediligere le vie respiratorie, anche molti altri hanno lo stesso primo target d’attacco. È importante ricordare che i polmoni sono gli unici organi interni del nostro corpo a continuo e costante contatto con l’ambiente esterno attraverso l’aria che respiriamo: consideriamo che un adulto ogni giorno effettua oltre 23 mila respiri e filtra con i polmoni circa 29 mila litri d’aria. La superficie dei nostri polmoni è pari a quella di un campo da tennis, si stima essere attorno ai 70-80 metri quadri. Per ossigenare al meglio il sangue, i polmoni sono dotati di centinaia di piccoli bronchi e di quasi trecento milioni di alveoli. Questi ultimi sono collegati ai capillari che consentono lo scambio tra ossigeno e anidride carbonica. L’enorme superficie dei polmoni aiuta questa attività vitale e la rende possibile in ogni momento, con costanza.
Perché se si ha la febbre, la tosse o sintomi simili a quelli del Coronavirus non bisogna andare in Pronto Soccorso?
La ragione è duplice. Primo perché, se davvero è stata contratta l’infezione da COVID-19, si rischia di infettare altre persone e gli operatori sanitari. Secondo perché, se non è stata contratta, si rischia di incontrare in Pronto Soccorso un soggetto infetto che potrebbe trasmetterla. Tutti gli ospedali stanno cercando di organizzarsi al meglio per ridurre al minimo il rischio di contagio, ma il rischio zero in questo campo della medicina non esiste. Quindi la cosa più ragionevole è telefonare al proprio medico di medicina generale che rimane il primo fondamentale filtro per consigli, suggerimenti, confronto ed eventuali rassicurazioni. In seconda istanza, si possono chiamare i numeri di pubblica utilità i cui operatori provvederanno a dare precise indicazioni. Per la riduzione dei contagi è fondamentale svolgere accertamenti come i tamponi diagnostici (eventualmente a domicilio) o isolare preventivamente il soggetto a casa propria in attesa di una definizione diagnostica in loco, tenendo conto che oggi il test viene effettuato solo a chi presenta sintomi. Nel caso in cui si necessitasse di un ricovero ospedaliero il passaggio diretto dal domicilio alla camera isolata in ospedale rappresenta un percorso molto più sicuro per tutti rispetto a un accesso attraverso il Pronto Soccorso. Il numero telefonico nazionale verde di riferimento è il 1500, di seguito vengono riportati i numeri regionali:
- Basilicata: 800 99 66 88
- Calabria: 800 76 76 76
- Campania: 800 90 96 99
- Emilia-Romagna: 800 033 033
- Friuli-Venezia Giulia: 800 500 300
- Lazio: 800 11 88 00
- Lombardia: 800 89 45 45
- Marche: 800 93 66 77
- Piemonte: 800 333 444
- Provincia autonoma di Trento: 800 86 73 88
- Puglia: 800 71 39 31
- Sicilia: 800 45 87 87
- Toscana: 800 55 60 60
- Trentino-Alto Adige: 800 751 751
- Umbria: 800 63 63 63
- Valle d’Aosta: 800 122 121
- Veneto: 800 46 23 40
Perché il Coronavirus può essere asintomatico?
In molte malattie virali c’è distinzione tra infezione e malattia. Per infezione si intende che il contagio è avvenuto, il virus è nell’organismo e lo si può anche ritrovare con i metodi diagnostici che abbiamo a disposizione, circola nel sangue ed eventualmente in altri fluidi biologici ma non si sta localizzando in uno o più organi. Diverso è invece il caso della malattia, in queste situazioni il virus si colloca in un organo dove comincia a dare segno di sé, replicandosi e danneggiando le strutture anatomiche. Questo vale anche per i Coronavirus e per COVID-19 in particolare. Perciò abbiamo soggetti che hanno contratto l’infezione ma non ne manifestano alcun segno (per esempio hanno normali esami del sangue) o sintomo. È bene per loro ma pericoloso per gli altri perché, non sapendo di essere infetti, possono contagiare una moltitudine di persone. Inoltre esiste un periodo di incubazione durante il quale i sintomi possono non essere ancora manifesti pur essendo il soggetto infettato: la stima va da uno a quattordici giorni (secondo alcuni recentissimi dati potrebbe anche essere più prolungato, fino a tre settimane) e mediamente è di circa cinque giorni. Perché poi tra tutti quelli che hanno contratto il virus alcuni restano asintomatici e altri possono addirittura morire? Questo in parte dipende dalla suscettibilità dei soggetti. Anziani, immunodepressi, portatori di malattie croniche cardio-vascolari o come il diabete hanno un rischio aumentato di sviluppare la malattia in forma severa, e poi esistono fattori che ancora non conosciamo approfonditamente. Si registrano casi di malattia anche grave in persone prima perfettamente sane, sportive, giovani e in salute. Le ragioni per le quali le manifestazioni cliniche in gravità e severità possono differire di molto da paziente a paziente sono tante e non ancora tutte note.
C’è una durata tipica dei sintomi?
Più della metà dei primi pazienti ricoverati in Cina per infezione da COVID-19 ha sviluppato dispnea (mancanza di fiato). La durata della malattia dall’inizio dei primi sintomi alla comparsa della dispnea è stata in media di otto giorni. Il tempo medio occorso tra i primi sintomi e il ricovero è stato di una settimana. L’intervallo di tempo tra i primi sintomi e il ricovero in reparti di terapia intensiva è stato di poco più di dieci giorni. Questo vuol dire che nei pazienti che si aggravano, dopo un periodo di sintomatologia abbastanza lieve o comunque non grave, le condizioni cliniche precipitano rapidamente. Per tali ragioni l’infezione causata da questo agente infettivo è subdola e pericolosa: molti soggetti che la contraggono guariscono perfettamente senza particolari cure e tornano a uno stato di assoluta normalità, mentre altri improvvisamente si aggravano. E se questo, come si è già precisato, avviene più frequentemente nei soggetti fragili (anziani, immunodepressi, portatori di malattie croniche), tuttavia può sopravvenire anche in pazienti giovani e in precedenza perfettamente sani.
Cosa dicono le statistiche sul tasso di guarigione?
I dati vengono continuamente aggiornati: oggi possiamo dire che su 100 pazienti che contraggono il virus 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma che possono essere gestiti in ospedale e da 2 a 5 decedono (la mortalità aumenta con il crescere dell’età dei soggetti). Spesso la causa di morte non è direttamente il virus ma le malattie delle quali il paziente era già portatore; in questo caso avviene lo stesso fenomeno che si registra normalmente durante le epidemie influenzali, quando l’infezione virale può fare precipitare la situazione di stabilità precaria ad esempio di malati cronici o portatori di stati di immunodepressione.
Ci sono persone più suscettibili a contrarre la malattia?
Sappiamo che alcuni soggetti, se contraggono il virus, hanno maggiori probabilità di aggravarsi e sviluppare una forma severa di malattia, sono i cosiddetti soggetti «fragili» (anziani, immunodepressi, portatori di malattie croniche, in particolare cardio-respiratorie), ma non sappiamo se questi o altri abbiano una maggiore probabilità di contrarre l’infezione a parità di rischio di contagio della popolazione esposta. È possibile, ma non abbiamo ancora dati scientifici solidi che supportino epidemiologicamente questo sospetto. Quindi al momento non ci sono particolari cautele da adottare per chi è cardiopatico, bronchitico o asmatico se non quelle suggerite per la popolazione generale allo scopo di ridurre i contatti e il rischio infettivo. Tuttavia un’attenzione particolare, pur in assenza di dati precisi, è raccomandabile per i pazienti immunodepressi.
Se ho il sospetto di aver contratto l’infezione posso avere contatto con animali domestici come cani e gatti?
Il Centers for Disease Control and Prevention americano suggerisce di limitare il più possibile i contatti con gli animali domestici, se si è stati contagiati da COVID-19, adottando le stesse precauzioni che sussistono tra persone. Sarebbero quindi da evitare contatti fisici, abbracci, baci, leccate etc. È bene che gli animali delle persone contagiate siano portati fuori a passeggio da altri. Se dovete prendervi cura direttamente del vostro animale domestico e non potete fare altrimenti, lavatevi le mani prima e dopo ogni contatto e indossate una maschera protettiva facciale (quelle che coprono naso, bocca, e proteggono anche gli occhi). Bisogna ricordare che gli animali sono spesso portatori di infezioni che possono essere trasmesse all’uomo.
COME SI CURA
Raffaele Bruno — Infettivologo, IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.
Qual è la cura per il Coronavirus?
In sintesi, si possono identificare tre macrocategorie:
- soggetti asintomatici o con forme lievi che non vanno trattati;
- soggetti con febbre, sintomi respiratori e/o polmonite in cui le indicazioni al trattamento variano a seconda delle condizioni;
- soggetti con grave polmonite e/o compromissione della funzione respiratoria in cui il trattamento non solo è indicato ma non deve essere differito.
Attualmente si ritiene che non vi siano sufficienti indicazioni al trattamento con farmaci antivirali dei soggetti con forme lievi, anche se sarebbe opportuno valutare se, come accade per altre malattie virali, la riduzione della carica virale si associ a una minor durata dei sintomi abbreviando il periodo di eliminazione del virus. Allo stesso modo non vanno trattati i soggetti positivi per Coronavirus che non presentano sintomi clinici. I pazienti di queste ultime due categorie vanno solamente candidati all’isolamento domiciliare per evitare che possano trasmettere il virus ad altre persone.
Per gli altri, al momento, non esistono cure di riconosciuta efficacia per il Coronavirus.
La terapia indicata è quella di supporto finalizzata al sostegno delle funzioni vitali, come ad esempio il supplemento di liquidi e di ossigeno al fine di sostenere la funzionalità del rene e dei polmoni. Ovviamente il trattamento è mirato alla gestione delle eventuali complicanze: come nel caso in cui l’infezione virale si complichi con una polmonite batterica e divenga quindi imprescindibile la somministrazione di antibiotici.
Vista l’urgenza di fronteggiare l’epidemia sono diverse le opzioni di terapie antivirali in studio i cui esiti sono però oggetto di valutazione da parte della comunità scientifica. Per questo motivo non è ancora stato definito un approccio standard su quali siano i pazienti da candidare al trattamento. Sino a ora le attenzioni dei medici si sono concentrate sui pazienti che presentano quadri radiologici di polmonite, soprattutto con le caratteristiche della polmonite virale e/o sintomi respiratori di particolare gravità. In questi casi la capacità del sangue di trasportare ossigeno ai tessuti viene alterata a causa dell’infiammazione che il virus provoca a carico dell’albero respiratorio. In pazienti simili vengono impiegati cocktail di farmaci antivirali con l’obiettivo di ridurre la quantità di virus presente nelle secrezioni respiratorie.
Un’altra categoria di malati in cui è opportuno considerare l’impiego di farmaci antivirali sono quelli che i medici definiscono «fragili», cioè quelli di età avanzata e/o affetti da patologie concomitanti. Infatti, i dati raccolti finora hanno identificato queste categorie di soggetti come quelle in cui l’infezione da Coronavirus può assumere la maggiore gravità e in cui raggiunge il maggior tasso di mortalità. Ovviamente la terapia antivirale va anche somministrata quando la carenza di ossigeno conseguente alle difficoltà respiratorie richiede provvedimenti di ventilazione assistita o il ricovero in Terapia Intensiva.
Quali sono i farmaci più comuni utilizzati nella cura del Coronavirus?
I farmaci che vengono più frequentemente prescritti in caso di infezione da Coronavirus sono quelli che si usano per alleviare i sintomi, le terapie di supporto e quelli usati per il trattamento delle complicanze. Ovviamente non è qui possibile elencarli tutti ma si può tentare di spiegarne il criterio d’impiego facendo alcuni esempi.
Dal momento che il sintomo più frequente è rappresentato dalla febbre, l’impiego di antipiretici trova ampio spazio, tra questi è da preferire il paracetamolo alla dose di 1 grammo da una a tre volte al giorno nell’adulto e, nel bambino, alle dosi adeguate al peso corporeo. Altri antipiretici come l’aspirina e i farmaci anti-infiammatori non steroidei sono egualmente efficaci nei confronti di sintomi quali febbre, cefalea e dolori muscolari, ma hanno un maggior numero e una maggior frequenza di effetti collaterali per cui andrebbero impiegati sotto controllo medico. Altri sintomatici che possono essere usati sono mucolitici e calmanti della tosse. La gamma dei sintomatici è ampia e, considerato che, in assenza di aggravamento, la malattia si comporta come una sindrome influenzale non complicata e autolimitante, conviene evitare di assumere troppi farmaci: la loro efficacia è solo momentanea e possono avere effetti collaterali più gravi della malattia stessa.
Vale la pena di discutere le indicazioni alla terapia antibiotica, dal momento che questa categoria di farmaci, accanto agli indubbi benefici, possiede vari effetti collaterali. Inoltre, considerata la proprietà di alterare la composizione del tipo di batteri che abitano il nostro intestino con conseguenze indirette sullo stato di salute, conviene impiegare questo tipo di farmaci sotto prescrizione di un medico esperto. Gli antibiotici sono necessari in tutti i casi in cui viene riscontrato un focolaio radiologico di polmonite, soprattutto se associata a insufficienza respiratoria. Sono anche generalmente indicati nei pazienti ricoverati in ospedale, in particolare in quelli degenti in Terapia Intensiva. Dove l’infezione sembra interessare solo le alte vie respiratorie l’uso degli antibiotici va discusso caso per caso: è indicato quando sono presenti segni di infezione batterica (ad esempio in presenza di espettorato giallo o verdastro) oppure nei soggetti con patologie respiratorie concomitanti, come quelli con bronchite cronica. Bisogna evitare di utilizzare gli antibiotici nei soggetti asintomatici o con sintomi di scarso rilievo a meno che questi disturbi non durino da più di cinque giorni.
Qual è il contesto ideale in cui curare i pazienti e come funzionano le cure?
Trattandosi di una patologia di osservazione recentissima e la cui diffusione sta assumendo un andamento poco prevedibile (soprattutto perché non si riesce a valutare in modo puntuale la dinamica di trasmissione), è cruciale definire in modo preciso quale sia la collocazione ideale dei pazienti per poter erogare loro la migliore assistenza possibile senza sprecare risorse economiche e umane. Siccome i dati al riguardo sono ancora frammentari e la loro interpretazione non è corroborata da robuste evidenze scientifiche, ogni tentativo di standardizzare un comportamento è abbastanza aleatorio e deve tenere conto di diverse variabili a seconda della discrezionalità del clinico che ha in carico il paziente. Riferendosi alle tre macrocategorie identificate in precedenza, un approccio ragionato e che potrebbe essere perseguito, a meno che le evidenze scientifiche non lo confutino successivamente, è il seguente:
- Soggetti asintomatici o con forme lievi che non vanno trattati: è consigliato l’isolamento domiciliare tenendo frequenti contatti con un’équipe sanitaria in modo da rilevare proattivamente e precocemente eventuali modificazioni dello stato di salute e l’eventuale necessità di essere collocati in un contesto assistenziale differente.
- Soggetti con febbre, sintomi respiratori e/o polmonite: le indicazioni al trattamento variano a seconda delle condizioni. A questa categoria di pazienti appartengono soggetti con polmonite e/o compromissione della funzionalità respiratoria che meritano generalmente l’ospedalizzazione. È possibile gestirli anche a domicilio se i sintomi sono di entità lieve o al massimo moderata, però, soprattutto se rientrano nella categoria di pazienti «fragili», è preferibile ospedalizzarli. Riguardo alla tipologia del reparto in cui ricoverarli, le strutture di Malattie Infettive sono quelle che possiedono le caratteristiche più idonee ad accoglierli. Infatti questi reparti sono dotati di camere di metratura e con le caratteristiche di aerazione adatte ad assistere soggetti infetti o colonizzati da patogeni trasmissibili. Inoltre, il personale di queste strutture ha ricevuto una formazione teorico-pratica specifica sull’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e sulla corretta applicazione delle procedure di isolamento del paziente in modo da poter interrompere la catena epidemiologica di trasmissione del patogeno. Infine, i medici infettivologi sono, tra i vari specialisti, quelli dotati del necessario know how sui farmaci antivirali e antibiotici per garantire la massima razionalità e appropriatezza di impiego.
- Soggetti con grave polmonite e/o compromissione della funzione respiratoria in cui il trattamento non solo è indicato ma non deve essere differito: questi pazienti devono essere collocati in un ospedale di terzo livello in grado di offrire, oltre ai requisiti assistenziali elencati sopra, un’assistenza di tipo intensivistico e pneumologico che comprenda le più moderne procedure di supporto respiratorio. Infatti, qualora il paziente ricoverato nel reparto Malattie Infettive peggiori e si trovi in una condizione di grave distress respiratorio diventa necessario sottoporlo a procedure che vanno dalla ventilazione non invasiva a pressione positiva alla ventilazione meccanica in tempi brevi.
Quanto dura il trattamento?
Se si cercano risposte certe, questo è forse l’aspetto su cui regnano i maggiori dubbi.
Per comprendere il motivo di questa incertezza bisogna considerare due fattori. In primo luogo, le metodiche diagnostiche disponibili sono al momento solo qualitative e non quantitative. Vuol dire che non è possibile sapere quale sia la quantità di virus presente nel campione respiratorio esaminato con il tampone e quindi non è possibile monitorare il decremento della carica virale nei campioni successivi. Siamo perciò costretti a definire in modo arbitrario un periodo di tempo dopo cui eseguire un nuovo tampone per confermare l’avvenuta clearance (smaltimento) del virus che sembra essere un end point valido per definire la durata della terapia. Un altro criterio che i medici utilizzano per decidere quando interrompere la terapia è quello clinico: in questo caso si interrompono le cure 48 ore dopo la risoluzione dei sintomi. Nel caso del Coronavirus, in cui è importante anche interrompere la catena epidemiologica di trasmissione, non è possibile considerare sufficiente questo criterio, a meno che non vi sia evidenza che la risoluzione dei sintomi coincida con la clearance del virus. In questo momento non è quindi possibile dire quale sia la durata corretta del trattamento e per quali categorie di pazienti. Ipoteticamente, i pazienti più gravi potrebbero aver bisogno di un trattamento di durata maggiore, anche se è impossibile attualmente porre un limite temporale.
Sono utili i farmaci per potenziare il sistema immunitario?
Il sistema immunitario, nel corso di qualsiasi infezione, riveste un ruolo fondamentale modulando una risposta infiammatoria efficace nel contrastare l’agente infettivo. Una volta riconosciuto l’agente patogeno, parte un reclutamento di cellule del sistema immunitario deputate all’eliminazione degli agenti patogeni e alla successiva riparazione dei tessuti eventualmente danneggiati.
Alcuni agenti patogeni inducono una risposta abnorme di citochine/chemiochine, nota come «tempesta di citochine», che si traduce clinicamente con l’insorgenza di quadri clinici severi.
Nello specifico, alcuni studi condotti su modelli animali in merito all’infezione da Coronavirus documentano come la risposta infiammatoria mediata dalle cellule T, importanti attori del sistema immunitario, stia alla base dello sviluppo delle complicanze polmonari gravi. Sebbene siano diversi gli studi a supporto, non vi è una chiara base patogenetica capace di individuare uno specifico fattore scatenante di una risposta infiammatoria abnorme. Sulla base di questi presupposti, qualsiasi intervento immunomodulante potrebbe rivelarsi utile al fine di spegnere l’eccessiva risposta infiammatoria. Non è chiaro tuttavia dove la terapia immunomodulante possa trovare applicazione e sarebbero necessari ulteriori studi per individuare pathway o target specifici al fine di modulare la risposta infiammatoria in corso di infezione.
Perché non esistono farmaci ad hoc per i casi gravi?
Per rispondere a questa domanda occorre fare una premessa di ordine generale. La medicina moderna definisce l’efficacia di un trattamento in base al confronto con quello che viene descritto come standard of care, cioè la terapia standard. Dal momento che ci troviamo di fronte a un agente eziologico di nuovo riscontro, non esiste una terapia con cui confrontare nuovi regimi terapeutici e quindi l’approccio non può che basarsi sulle scarse osservazioni esistenti e sulle esperienze ricavate da situazioni analoghe. Purtroppo, l’esperienza sui farmaci antivirali riguarda categorie di soggetti quali gli immunodepressi, quelli con infezione da HIV e HCV, mentre per le altre virosi le opzioni disponibili sono abbastanza limitate. In particolare gli antivirali più efficaci hanno un meccanismo di azione mirato nei confronti dei virus per i quali sono stati studiati e non sono affatto efficaci nei confronti di virus con caratteristiche strutturali ed enzimatiche diverse. Si è cercato quindi di ricorrere a farmaci a spettro antivirale allargato, quali una molecola utilizzata per l’HIV, lopinavir/ritonavir, una per l’HCV, ribavirina, e un’altra di concezione più moderna, remdesivir, impiegati in base a prove di sensibilità in vitro su virus della famiglia del Coronavirus. Quindi, più che dire che non esistono cure, è corretto affermare che non esistono terapie di efficacia documentata coerentemente con gli standard richiesti dalla medicina moderna e che i dati che porteranno a definire qual è il miglior trattamento per ogni categoria di pazienti deriveranno da studi che richiedono un ampio numero di casi prima di poter essere validati.
Come vengono curati i pazienti gravi?
Questa domanda è la logica continuazione di quella precedente. Per rispondere è opportuno fare una riflessione e tornare indietro di qualche anno. Quando la comunità scientifica ha dovuto affrontare la sfida dell’HIV, i primi anni di studi e tentativi terapeutici sono stati densi di frustrazioni. Infatti, nonostante i farmaci che venivano testati avessero un’elevata affinità con le molecole target virali, il virus aveva una fenomenale capacità di mutare la sua struttura e diventare rapidamente resistente al farmaco impiegato. La svolta si è verificata quando abbiamo potuto disporre di farmaci in grado di agire in modo sinergico attaccando diversi bersagli del ciclo di replicazione virale. Da questa esperienza, poi corroborata da altre successive, deriva che è opportuno basare la terapia antivirale su un’associazione di farmaci piuttosto che su un farmaco solo, in modo da superare la capacità intrinseca di ogni virus di modificare la propria struttura o le proprie attività enzimatiche diventando resistente ai farmaci impiegati. L’uso di cocktail di farmaci è motivato dunque dalla necessità di superare i meccanismi con cui i virus si difendono dalla pressione dell’ambiente e non certo dal tentativo di sfruttare in modo casuale l’efficacia sinergica di composti differenti. Un altro presupposto teorico alle terapie antivirali di combinazione deriva dall’osservazione che nel trattamento delle virosi è cruciale abbattere il più velocemente possibile la carica virale per consentire al nostro organismo di far intervenire i suoi sistemi di difesa. In questo contesto le terapie di combinazione che agiscono su bersagli diversi si sono sempre dimostrate superiori alla mono-terapia e il loro impiego è un approccio ragionato per aumentare l’efficacia del trattamento.
Perché è stato riscoperto un farmaco non più utilizzato contro l’HIV e come agisce sul Coronavirus?
La terapia antivirale può agire su diversi target, tra cui l’inibizione di una proteasi virale (gli enzimi coinvolti nella produzione di proteine). Il virus della SARS contiene una proteasi virale (PROteasi SARS-CL) che riveste un ruolo chiave nella fase di assemblaggio delle proteine virali. A tal proposito alcuni studiosi di Hong Kong hanno valutato l’attività anti-Coronavirus in vitro di alcuni inibitori delle proteasi già in commercio (o in una fase iniziale di sviluppo) e l’associazione lopinavir/ritonavir è stata l’unica a mostrare un’efficacia.
Peraltro i risultati in vitro trovavano una corrispondenza con la real life: diversi studi osservazionali documentavano come la popolazione HIV positiva apparisse risparmiata dall’infezione. L’efficacia clinica di lopinavir/ritonavir in pazienti con SARS si confermava in quanto veniva osservato un numero significativamente inferiore di decessi nei soggetti in trattamento con lopinavir/ritonavir più ribavirina rispetto a una coorte storica di soggetti che avevano ricevuto la sola ribavirina.
In che modo si diagnostica il Coronavirus? La diagnosi è sempre efficace?
Un impulso decisivo alla diagnosi delle infezioni virali è venuto dalla possibilità di impiegare su vasta scala le metodiche di biologia molecolare che consentono di ricercare direttamente il materiale genetico del virus nei campioni biologici, senza che il virus debba essere coltivato. Queste metodiche, che ormai hanno di gran lunga soppiantato tutte le altre per rapidità e sensibilità, hanno due aspetti critici. Il primo è la specificità: a volte la positività, soprattutto se le metodiche non permettono di individuare la quantità di virus, può corrispondere alla presenza di materiale genetico di altri virus con analogie strutturali e/o a particelle virali non infettanti. Il secondo è il costo che spesso grava sui bilanci di un sistema sanitario pubblico. Quindi occorre fare due precisazioni. La prima è che l’interpretazione del dato virologico deve essere correlata al quadro clinico e affidata a un medico esperto. La seconda è che per evitare di sprecare risorse occorre che le metodiche diagnostiche vengano eseguite nei tempi e nel contesto adeguato.
Il Coronavirus va ricercato con metodiche di biologia molecolare nei campioni di secrezioni e cellule delle alte vie respiratorie prelevate mediante scraping nasale (il cosiddetto tampone), l’aspirato nasofaringeo e, nei casi che richiedano l’intubazione e/o il ricorso a metodiche diagnostiche invasive, tramite broncoscopia con lavaggio broncoalveolare.
Chi guarisce può trasmettere il virus?
Al momento non vi sono informazioni sicure sulla durata della persistenza del virus nelle vie respiratorie dopo che si sono risolti i sintomi clinici. Si ipotizza che siano necessari due test negativi per considerare eradicata l’infezione virale, ma vista la complessità e il costo delle indagini virologiche, il doppio controllo del tampone va valutato attentamente. Sembra pertanto preferibile considerare il soggetto ancora potenzialmente infettante e quindi prolungare l’isolamento per un totale di quattordici giorni dal contatto o dal test positivo.
Coronavirus mappa contagi su tutto il territorio nazionale

BAMBINI
Gian Vincenzo Zuccotti — Pediatra, Ospedale dei Bambini V. Buzzi
Qual è il primo caso pediatrico di infezione da Nuovo Coronavirus?
Il primo caso pediatrico confermato è stato segnalato a Shenzhen il 20 gennaio 2020. In seguito, un articolo del «Lancet» ha riportato il caso di un bambino di 10 anni, infettato per contatto con i familiari affetti dal Coronavirus: il bambino, pur presentando un addensamento polmonare alla radiografia del torace, era asintomatico, senza febbre e non presentava esami ematici alterati. Successivamente sono stati segnalati altri casi confermati nella popolazione pediatrica: una bambina di 9 mesi a Pechino e un neonato di Wuhan, nato da madre affetta da COVID-19, risultato positivo trenta ore dopo la nascita. Recentemente è giunta la notizia della negativizzazione di questo neonato, senza che si sia ricorsi ad alcuna terapia. Questo ultimo caso ha indotto a ipotizzare una possibile trasmissione verticale (da madre a neonato prima della nascita), tutt’oggi non confermata, oppure una trasmissione orizzontale peripartum, dovuta cioè allo stretto contatto del neonato con la madre appena dopo la nascita. Recentemente, il 26 febbraio, si è verificato proprio in Italia il caso di una donna positiva al virus che ha partorito, all’ospedale di Piacenza, un neonato sano, risultato negativo ai test.
La pauci-asintomaticità (la scarsità di sintomi) dei bambini potrebbe portare a sottostimare il problema, che invece è importante se si considera che il virus può essere trasmesso anche in presenza di scarsi sintomi clinici.
Nell’ultimo lavoro di Wu Zunyou, responsabile del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, su 72.314 casi, si riportano 549 casi di infezione da Coronavirus tra 10 e 19 anni, 416 casi tra 0 e 9 anni e si ribadisce che nessun decesso si è verificato al di sotto dei 9 anni di età.
Qual è l’incidenza del Coronavirus sulla popolazione pediatrica?
Da uno studio pubblicato sul «China CDC Weekly» il 17 febbraio da parte del «The Novel Coronavirus Pneumonia Emergency Response Epidemiology Team» si evince che, su un totale di 72.314 pazienti, di cui 44.672 casi confermati ovvero infetti da COVID-19, 965 sono pazienti di età inferiore ai 19 anni e, tra questi, si è registrato un caso di decesso nel cluster (raggruppamento) di età tra i 10 e i 19 anni. Da ciò si stima che solo il 2 per cento di questa coorte appartiene alla popolazione pediatrica e che il tasso di mortalità in tale popolazione è di 1 su mille, di gran lunga inferiore rispetto a quello calcolato su tutta la popolazione coinvolta in questa analisi, che risulta essere del 2 per cento. Ma i dati possono essere sottostimati proprio per la frequente asintomaticità dalla popolazione pediatrica o comunque la minore rilevanza dei sintomi, che quindi non sono portati all’attenzione del personale sanitario.
D’altro canto, anche nella precedente epidemia di SARS la popolazione pediatrica era stata poco interessata e non si era registrato nessun decesso.
Come il Coronavirus colpisce i bambini? Quali sono i sintomi?
Il quadro sintomatologico tipico dell’adulto è caratterizzato da febbre, tosse, dispnea, dolori muscolari diffusi, fino ad arrivare a quadri di grave distress respiratorio. Sintomi tipicamente virali come la rinite e la congiuntivite o sintomi gastroenterici possono essere riscontrati anche all’esordio.
Al momento non abbiamo molti dati clinici ed epidemiologici riferiti alla sola popolazione pediatrica; in una piccola coorte formata da 34 bambini con età media di 8 anni, sono stati registrati 22 casi con sintomatologia tipica, 9 casi lievi e 3 asintomatici. Non sono stati segnalati casi severi o critici. I sintomi più comuni sono stati febbre in 17 casi, tosse in 13 casi; in 28 pazienti la formula leucocitaria era normale; tutti i 34 bambini sono stati dimessi al domicilio. Questi dati biochimici differenziano il paziente pediatrico dall’adulto, nel quale si riscontra linfopenia (scarsità di linfociti nel sangue), dovuta verosimilmente ad attivazione delle citochine (molecole proteiche).
Dal punto di vista radiologico i bambini possono presentare un quadro di polmonite interstiziale, oppure focolai mono e bilaterali fino a opacità cosiddette a vetro smerigliato. Il quadro radiologico però non trova corrispondenza con la clinica, quindi immagini apparentemente preoccupanti possono accompagnarsi a sintomi lievi (una peculiarità pediatrica tra l’altro presente anche in altre patologie).
I bambini possono uscire e giocare all’aperto?
I recenti focolai in Italia hanno comportato la sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico-sportivo e religioso, chiusura dei nidi, dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza dei corsi professionali, Master e Università a esclusione di specializzandi e tirocinanti delle professioni sanitarie; inoltre è stata attuata la chiusura dei musei, dei cinema e degli altri istituti e luoghi di cultura e, in un primo momento, anche quella dei luoghi di ritrovo dopo le ore 18. I bambini possono continuare a giocare all’aperto, anche se è meglio evitare ritrovi affollati e luoghi chiusi molto frequentati. È importante insegnare ai bambini che questo virus si trasmette con le goccioline di saliva, per cui ci si deve lavare frequentemente le mani, starnutire utilizzando il fazzoletto, non portare alla bocca oggetti, magari passati tra le mani o la bocca dei compagni di classe o di gioco. Si raccomanda, qualora ci fosse un’infezione delle vie aeree, di osservare la normativa ministeriale e quindi tenere il bambino a casa fino alla remissione completa dei sintomi.
Come spiegare il Coronavirus ai bambini?
Si deve spiegare ai bambini che ci troviamo ad affrontare un virus che causa una sintomatologia simile all’influenza che tutti gli anni possono prendere sia i bambini sia gli adulti, come la mamma e il papà. La malattia causata da questo Coronavirus comporta tosse, febbre, raffreddore, ma molte persone sono infettate senza presentare sintomi, quindi stanno bene. Si deve spiegare ai bambini che, come per altre malattie virali, ci sono delle persone più deboli che possono avere sintomi importanti e che le persone più a rischio possono essere ricoverate e possono anche morire. A oggi il 2 per cento delle persone è morto ma questi decessi si sono verificati in pazienti anziani o ammalati; finora in Italia nessun bambino è deceduto. Bisogna spiegare loro che questo è un virus nuovo che prima non si conosceva e che, per questo motivo, mentre per l’influenza epidemica noi possediamo delle misure profilattiche come il vaccino e i farmaci antivirali, per il Nuovo Coronavirus non possediamo né il vaccino né una terapia mirata. Gli scienziati di tutto il mondo però stanno studiando nuove terapie e un vaccino preventivo, e in questo modo, come è già successo tante altre volte nella storia, si troverà una soluzione per prevenire e curare anche questa infezione. Per adesso, bisogna fare attenzione e cercare di evitare la trasmissione di questo virus nella popolazione; per questo motivo le scuole sono state chiuse e non si possono fare tante cose, soprattutto se si tratta di andare in luoghi affollati e svolgere attività che coinvolgono tante persone tutte insieme. Bisogna quindi collaborare e ognuno, anche tra i più piccoli, deve fare la sua parte per aiutare le autorità a contenere l’epidemia.
Si deve quindi dire la verità ai bambini, renderli partecipi e insegnare loro il senso di responsabilità civile; è molto importante inoltre spiegare loro che il virus colpisce chiunque a prescindere da razza, etnia, scolarità e religione. Perciò, a priori, nessuno è identificabile con la causa, nessuno va incriminato.
In questo momento l’epidemia da Coronavirus sta generando ansia e panico nei genitori, emozioni che vengono trasmesse ai bambini, ed è proprio quello che va evitato. Citando l’articolo di Alberto Pellai per il «Corriere della Sera»: «si tratta di un’infezione causata da un virus piccolo e come tale si può vedere solo in laboratorio con microscopi speciali. Ecco perché ci si spaventa. Perché è invisibile a occhio nudo».
La paura si diffonde perché è qualcosa che non conosciamo, ma la paura va messa da parte quando comunichiamo con i nostri bambini, lasciando il posto all’informazione veritiera e cercando di dare un messaggio di speranza e coraggio invece di seminare anche nei più piccoli paura, odio e discriminazione.
La chiusura delle scuole e le altre misure
Giuseppe Remuzzi — Direttore Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, membro del Consiglio Superiore di Sanità
Qual è la logica dei provvedimenti di ordine pubblico messi in atto per arginare il contagio?
Per le sindromi respiratorie acute potenzialmente epidemiche, i provvedimenti di ordine pubblico da seguire secondo le linee guida internazionali per arginare il contagio puntano al riconoscimento precoce e alle misure di controllo che ciascuno e la collettività possono mettere in atto per ridurre la diffusione dell’agente infettivo. Una volta identificato il caso, va fatta una notifica alle autorità sanitarie attraverso i sistemi di sorveglianza locale. Le autorità riferiscono al Ministero che poi riporta all’Organizzazione Mondiale della Sanità tutti gli eventi che possono configurare uno stato di emergenza che potrebbe anche avere un respiro internazionale. Le principali misure di controllo devono essere l’identificazione e gestione tempestiva dei pazienti, degli operatori sanitari o visitatori eventualmente infettati da una sindrome respiratoria acuta che potrebbe diventare una potenziale epidemia o pandemia. Queste azioni sono quindi fondamentali per ridurre al minimo il rischio di trasmissione associata all’assistenza sanitaria, e per consentire un’efficiente risposta della salute pubblica.
I due pilastri dei provvedimenti di ordine pubblico sono da una parte epidemiologico e dall’altra clinico.
1.Epidemiologico: vuol dire ricostruire la storia precedente di chi ha contratto la malattia che preoccupa, capire se quell’individuo è entrato in contatto con casi accertati o sospetti, tenuto conto del periodo di incubazione, e sapere se quel soggetto ha viaggiato in aree a rischio. I familiari di chi ha un’infezione respiratoria acuta potenzialmente epidemica sono verosimilmente esposti allo stesso microorganismo e vanno quindi considerati come chi ha un’infezione in corso. Per malattie completamente nuove, come nel caso di COVID-19, i provvedimenti di ordine pubblico possono cambiare man mano che diventano disponibili nuove evidenze sull’andamento della malattia. L’identificazione tempestiva dei pazienti con sindrome respiratoria acuta consentirà l’adozione immediata delle misure di prevenzione e il controllo delle infezioni, e permetterà di ridurre la trasmissione ad altri nella struttura sanitaria o nella popolazione e di prevenire quindi focolai di infezioni soggette a epidemie.
2.Clinico: vuol dire farsi carico di tutti i pazienti con sindrome febbrile, tosse e difficoltà di respiro e di chi ha una storia di esposizione a pazienti con sindromi respiratorie, e procedere con test diagnostici e trattamenti in ambiente adeguato. Chi ha sintomi o proviene da aree a rischio deve essere isolato, sui casi gravi bisogna agire immediatamente.
Perché sono state chiuse scuole e Università?
È una delle procedure suggerite per il controllo dell’infezione. Serve a ridurre la trasmissione del virus fra persone che frequentano ambienti chiusi, e questo vale particolarmente d’inverno. Le scuole sono luoghi di aggregazione dove il contagio è molto più facile che altrove. Per quanto riguarda i bambini che si muovono, giocano, si mettono le mani in bocca, insomma sono difficili da contenere (anche perché fra loro c’è sempre un certo grado di promiscuità), il modo migliore per prevenire il contagio è chiudere le scuole.
Le Università sono state chiuse in quanto gli studenti non provengono da una sola area ma da zone diverse e anche da Regioni diverse, quindi il rischio di contagio è più alto.
Tutto questo vale soltanto nelle aree interessate da casi di infezione accertata. Insomma, per quanto riguarda la Lombardia e il Veneto la disposizione di chiudere scuole e Università ha seguito una logica corretta. Quella di chiudere le scuole nelle Marche, anche in assenza di casi accertati nella Regione, no.
A che cosa servono le misure che limitano la frequentazione di cinema, teatri e pub?
Anche se per il momento non esistono dati che dimostrino la loro efficacia, si tratta di misure di buon senso che valgono, di nuovo, nelle aree con infezioni accertate. Limitare le occasioni di incontro fra le persone riduce la possibilità che pochi individui infetti, che magari non lo sanno, trasmettano l’infezione a tanti altri. Queste misure non devono intendersi come sostitutive a comportamenti individuali corretti. Lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con soluzioni a base di alcol per eliminare il virus dalle mani, in particolare prima di consumare i pasti. Non portarsi le mani alla bocca. Coprirsi la bocca con un fazzoletto usa e getta quando si starnutisce o si tossisce, o farlo nell’incavo del braccio. Ricordarsi che il telefono cellulare potrebbe essere un vettore di contagio, e igienizzarlo dopo l’uso.
Qualcuno potrebbe chiedersi se sia stato giusto sospendere le partite di calcio. Nelle zone considerate a rischio, dove ci sono quelli che i medici definiscono «cluster epidemici», non c’è ragione di sospendere il match, basterebbe che le partite si svolgessero a porte chiuse, si potrà così vedere la partita in televisione finché l’epidemia non si esaurisce. Non c’è ragione di impedire lo svolgimento regolare delle gare nelle Regioni dove non si sono registrati casi di malattia.
Cosa significa «paziente zero»?
È una storia lunga (e anche simpatica). «Paziente zero» è un termine che viene dagli Stati Uniti e fa parte dei tanti aneddoti del periodo dell’esplosione dell’AIDS. Nel 1984, il Centers for Disease Control and Prevention ha utilizzato un codice per chi poi si è scoperto essere un certo Gaetan Dugas. L’hanno codificato come «paziente O». «O» stava per «Out of California», insomma uno che veniva da fuori. La lettera doveva essere «O» come «out», non «zero», ma è stata interpretata come se fosse un numero. Insomma, un equivoco che però ha avuto successo grazie anche a Randy Shilts che, nel suo libro del 1987 And the Band Played On, ha diffuso questa espressione che ormai tutti usano da allora per indicare «un individuo identificato come il primo paziente che darà il via a un’indagine epidemiologica». È come in un’investigazione di polizia su un delitto: se il caso non lo metti in mano alla persona giusta il colpevole non lo troverai mai. Per l’epidemia di Ebola il «paziente zero» lo hanno trovato, sembra essere stato un bimbo di 2 anni, di un piccolo villaggio della Guinea. «Paziente zero» ormai è diventato un termine così popolare che lo si usa anche per altro, per esempio per indicare il primo che diffonde qualcosa di negativo agli altri.
Perché è importante rintracciare il «paziente zero» in Italia?
Rispetto a COVID-19 in questi giorni si discute molto del «paziente zero» in Italia e di cosa fare per trovarlo e del perché non lo si trova, e quando lo si potrà trovare. Come se fosse importante. In realtà, in proposito al Coronavirus, il «paziente zero» ormai è inutile cercarlo, agli epidemiologi non serve più. Dal primo che potrebbe aver trasmesso l’infezione ad altri sono partite vie di diffusione secondarie e terziarie che ormai è impossibile tracciare e ricostruire. Facciamone a meno, non ce n’è bisogno.
Che differenza c’è tra le misure di prevenzione messe in campo dall’Italia e quelle messe in campo da altri Paesi?
L’Italia ha fatto più tamponi di quanti non ne abbiano fatti gli altri Paesi. Se ci confrontiamo con l’Inghilterra, a fine febbraio, i numeri sono molto simili (8.000 contro 6.000 rispettivamente), ma Germania e Francia ne hanno fatti meno. La Francia almeno dieci volte di meno. Chi ha sbagliato? Noi, e specialmente si è sbagliato in Veneto. I test si devono fare solo a soggetti che presentano sintomi e a chi proviene da zone dove sono stati documentati focolai di malattia. Chi non ha sintomi e non ha fattori di rischio il tampone non lo deve fare (avete idea di cosa potrebbe succedere se tutti quelli che pensano di avere l’influenza dovessero farsi il tampone?); se lo facessimo a tutti poi non ne avremmo più per chi ne ha davvero bisogno. Già in questo momento le richieste sono così tante che i tempi per avere una risposta dal test arrivano in trentasei ore, mentre i tempi utili dovrebbero essere fra le due e le quattro. Attenersi alle evidenze scientifiche ormai consolidate e alle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità avrebbe ridimensionato il caso «Italia».
I casi confermati dall’Istituto Superiore di Sanità a fine febbraio sono solo 190, molto meno dei casi che sono stati dichiarati e che includevano quelli in attesa di conferma. E rispetto a tutti quelli che hanno fatto il tampone nel nostro Paese solo il 4 per cento è risultato positivo.
Per il resto non ci sono differenze, in merito alle misure di isolamento degli individui che hanno avuto contatti con le persone infette, tra quello che facciamo noi e quello che fanno gli altri Paesi.
Il principio scientifico delle misure prese nella Zona rossa di Wuhan è lo stesso di quello adottato per il Lodigiano?
Il principio è sostanzialmente lo stesso di quello adottato per il Lodigiano. A Wuhan ci sono restrizioni molto forti. Le persone possono uscire di casa una volta sola al giorno e solo per fare la spesa. Nel Lodigiano ci sono misure meno coercitive, ci si può muovere un po’ di più, passeggiare (eventualmente col cane), fare la spesa, uscire ogni tanto mantenendosi sempre all’interno della Zona rossa.
Il blocco dei voli dalla Cina di fine gennaio è stata una misura utile?
Pur ammettendo che gli altri Paesi dell’Europa hanno una compagnia di bandiera che vola da e per la Cina e noi no, bloccare i voli per la Cina a fine gennaio non è stata una buona decisione. Un aspetto cruciale per controllare l’epidemia è la tracciabilità dei pazienti che vengono da zone a rischio. La chiusura dei voli può aver ritardato di qualche giorno il diffondersi dell’epidemia, ma chi doveva tornare dalla Cina è tornato comunque attraverso altri scali senza essere stato sottoposto a ulteriori controlli.
Sarebbe stato preferibile che si fosse creato un sistema di contenimento come è stato fatto in Francia, Germania e Inghilterra per chi arrivava dalla Cina, identificando su base clinica i casi a rischio di sviluppare l’infezione. Qualcuno dice che compilare i moduli di autocertificazione sul proprio stato di salute o segnalare eventuali problemi respiratori o stati influenzali non serve a nulla. Non è vero, cinque minuti di domande mirate a ogni passeggero sono molto utili come triage. Col senno di poi sarebbe stata giusta una quarantena per tutte le persone che rientravano da aree dove l’infezione era endemica ma scegliere a posteriori è sempre più facile; più in generale, in un mondo dove tutti vanno e vengono in modo quasi frenetico, o i trasporti li bloccano tutti, nel caso specifico tutta l’Europa, o non lo fa nessuno, e comunque ci si dovrebbe organizzare in modo che tutti utilizzino gli stessi sistemi per rintracciare e isolare i pazienti che possono trasmettere la malattia. Ci vuole certamente una regia unica, almeno in Italia, per gestire al meglio una malattia molto contagiosa sostenuta da un agente infettivo nuovo. E per questo, dopo molto ritardo, oggi siamo sulla buona strada, ma idealmente ci sarebbe dovuta essere la stessa regia per tutta l’Europa.
La quarantena a cosa serve?
La quarantena – che significa restringere la possibilità di muoversi per le persone che sono state esposte a una malattia contagiosa ma non sono ancora malate – è una misura fondamentale per prevenire il diffondersi della malattia. Si chiama così perché a Venezia, a metà del Trecento, la Repubblica aveva disposto che chiunque volesse entrare in laguna prima venisse isolato per quaranta giorni. Fu fatto per proteggere la popolazione contro la Peste Nera che in quel periodo aveva fatto morire un terzo degli abitanti dell’Europa e dell’Asia. In realtà, all’inizio, la quarantena non era proprio di quaranta giorni ma di trenta, poi l’isolamento è stato prolungato a quaranta e da lì il nome di «quarantena». La quarantena è stata utilizzata sempre in Europa per contenere lebbra, sifilide, febbre gialla e, a metà dell’Ottocento, persino il colera. Sono passati più di settecento anni ma la quarantena è ancora oggi il modo più efficace per prevenire le epidemie (che siano casi sospetti o conclamati). Tra l’altro, la quarantena è anche un modo per evitare che i pazienti afferiscano al Pronto Soccorso o vadano subito nello studio del medico di famiglia, cosa che invece è successa a Codogno ma anche ad Alzano, in provincia di Bergamo, dando origine a focolai che adesso preoccupano. Se poi una persona è in quarantena a casa sua, deve comunque mettere in atto le precauzioni di cui abbiamo parlato, evitare contatti fisici e, se si ha la possibilità, dormire in camere separate.
Riguardo alla quarantena c’è una battuta simpatica sul «New York Times» di qualche giorno fa in cui si dice: «It definitely puts stress on a marriage», cioè «può mandare in crisi il matrimonio». Nicole Gadon, una donna di 68 anni che è dovuta stare in casa per tanti giorni sola col marito, alla fine è guarita ma ha divorziato.
Ci sono, ed eventualmente quali sono, altre misure utili di ordine pubblico che gli scienziati consigliano di adottare?
In una delle riunioni che recentemente si sono tenute a Ginevra, i consulenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno concluso che si dovranno continuare le strategie messe in atto per contenere o eliminare l’infezione, e questo lo si dovrà fare ancora per due o tre settimane. La situazione poi andrà monitorata e andranno implementate le raccomandazioni qualora le cose dovessero modificarsi. Le analisi genetiche hanno concluso definitivamente che l’epidemia di COVID-19 è simile ma non sovrapponibile alla Sindrome Respiratoria Acuta da Coronavirus (SARS-CoV).
Il Nuovo Coronavirus è arrivato all’uomo dagli animali intorno alla metà dell’ottobre 2019 e questo lo sappiamo dalle analisi genetiche condotte sui primi casi. La diffusione poi è avvenuta quasi completamente attraverso la trasmissione da uomo a uomo con gli stessi meccanismi dell’influenza. Il Coronavirus all’inizio causa dei sintomi molto modesti, motivo per cui gli individui infetti, anche se producono fin da subito una grande quantità di virus nelle alte vie respiratorie, si comportano normalmente, svolgendo le loro attività come sempre, e così contribuiscono al diffondersi dell’infezione. Questo non succedeva con la SARS perché a diffondere l’infezione erano solo i malati più gravi, quindi facili da identificare e isolare.
Il virus di COVID-19 ha un’altra caratteristica specifica: si replica nelle basse vie respiratorie anche in pazienti che non si presentano con segni clinici di polmonite. Di SARS moriva il 10 per cento delle persone colpite, di COVID-19 il 2 per cento, secondo le stime più recenti (soprattutto anziani che hanno già malattie come diabete, malattie polmonari e altre condizioni respiratorie croniche).
Aver chiuso Wuhan è stato fondamentale per ridurre la diffusione del Nuovo Coronavirus a livello internazionale, ma questo effetto non durerà a lungo; adesso bisogna occuparsi dei Paesi raggiunti da persone infette che provenivano dalla Cina e interrompere le catene di trasmissione del virus con l’obiettivo finale di eliminarlo dall’uomo, come è successo con la SARS. In questo momento c’è una grande preoccupazione soprattutto per chi opera nel campo della salute, e in particolare medici e infermieri che sono ad alto rischio di infezione, come anche chi lavora nelle case di cura per anziani.
Le misure di salute pubblica più importanti da adottare a questo punto sono:
- monitoraggio epidemiologico molto stretto delle vie di trasmissione;
- strategie di comunicazione alla popolazione generale e a chi è più vulnerabile perché possa proteggersi e identificare precocemente i sintomi;
- isolare i pazienti positivi e tracciare chi ha avuto contatti diretti con loro;
- intensificare la sorveglianza per individuare immediatamente eventuali nuovi focolai dentro e fuori la Cina;
- rafforzare i sistemi sanitari perché siano sempre a disposizione i presidi necessari per esercitare tutte le misure utili a proteggere chi si può infettare e chi ha contratto la malattia e ha difficoltà di respiro (ossigeno, attivatori meccanici e apparecchi di ossigenazione extracorporea);
- infine bisogna lavorare per capire come si trasmette l’infezione dall’animale all’uomo per evitare che emergano nuovi Coronavirus.
Più in generale sarebbe bene – come suggerisce il professor Wang Linfa, uno dei maggiori esperti di virus zoonotici – «che l’uomo lasciasse stare i pipistrelli». Il virus di COVID-19 è vecchissimo, ma la diffusione tra gli uomini è recente e questo dipende dalla vendita di animali vivi, dalla promiscuità tra loro, dall’usanza di tenerli uno sopra l’altro nei mercati, insomma da abitudini tribali in un Paese che per altri versi – riguardo a scienza e tecnologia – sta superando quelli più avanzati.
IL VIRUS
Alberto Mantovani — Immunologo, IRCCS Humanitas
Qual è la specificità del Nuovo Coronavirus?
Questa è la terza volta che un virus animale del ceppo dei Coronavirus fa un salto di specie infettando l’uomo. È accaduto prima con la SARS (SARS-CoV) in Estremo Oriente tra il 2002 e il 2003, e di nuovo circa dieci anni dopo con la MERS (MERS-CoV) in Giordania e Arabia Saudita. Ora succede con il Nuovo Coronavirus comparso inizialmente a Wuhan.
L’analisi genetica suggerisce fortemente che la specie di origine di questo virus, che ha dato vita all’infezione chiamata COVID-19, sia costituita dai pipistrelli, che ospitano diversi ceppi di Coronavirus. Fra loro e l’uomo, un ospite intermedio: nel caso di SARS era un mammifero chiamato zibetto (civet), che vive nel Sudest asiatico, e nel caso di MERS, virus che continua a circolare in Arabia Saudita, era stato identificato nel cammello.
I colleghi cinesi hanno isolato e ottenuto la sequenza del virus con una velocità straordinaria, identificando anche il suo recettore, l’enzima di conversione dell’angiotensina di tipo 2, espresso dalle cellule del polmone profondo. Questo è un primo passo imprescindibile per il possibile sviluppo di strumenti diagnostici e terapeutici.
Successivamente il virus è stato isolato in altre regioni del mondo, in primis Francia, Australia e Italia presso l’ospedale Spallanzani di Roma. In precedenza, nel nostro Paese era stato isolato molto rapidamente il virus che aveva causato la SARS da Elisa Vicenzi, all’ospedale San Raffaele.
Il sistema immunitario ci protegge dal Coronavirus e come?
Conosciamo molto poco delle risposte immunitarie nei confronti di questo nuovo Coronavirus. Come per tutti i virus e i patogeni in generale, non abbiamo dubbi sul fatto che il sistema immunitario sia efficace nella risposta contro il Coronavirus, e, in un certo senso, la riprova ci viene dalla clinica. I casi più gravi sono persone anziane o con altre patologie già presenti. Non è un caso: il sistema immunitario, invecchiando insieme a noi, perde la memoria dell’immunità e funziona meno bene rispetto alle difese delle persone giovani. Inoltre, le malattie croniche contribuiscono a comprometterne l’efficienza.
Anche se ancora non ci sono studi dettagliati sulla risposta immunitaria a questo virus, è molto ragionevole pensare che sia merito delle nostre difese immunitarie se in circa l’80 per cento delle persone affette da COVID-19 si dà un quadro benigno e il virus, alla fine, viene eliminato. Come sempre, però, il sistema immunitario è un po’ una lama a doppio taglio: una risposta eccessiva o fuori controllo può essere a sua volta causa di amplificazione del danno. Non sappiamo se questo contribuisca, per COVID-19, alla cosiddetta Acute Respiratory Distress Syndrome che caratterizza i pazienti più gravi. La lezione imparata al tempo della SARS, soprattutto grazie agli studi di un collega di Hong Kong, Malik Peiris, suggeriscono che effettivamente una risposta infiammatoria incontrollata contribuisca alla gravità della malattia nei pazienti in cui si manifesta in modo molto serio.
È importante tenere presente che una parte del nostro sistema immunitario, che chiamiamo immunità innata (perché comparsa nell’evoluzione prima di quella cosiddetta adattativa), costituisce la prima linea di difesa nei confronti di tutti i patogeni. Si stima che più del 90 per cento degli incontri con virus e batteri vengano gestiti da questa linea di difesa, attraverso molecole che costituiscono un po’ gli antenati degli anticorpi, senza che noi nemmeno ce ne accorgiamo. Non sappiamo ancora con certezza se questa prima linea di difesa funzioni e possa essere attivata anche nei confronti del Coronavirus, anche se è ragionevole pensare che sia molto importante in tutti i casi, asintomatici o semi-asintomatici. In particolare, è interessante verificare il ruolo di protezione svolto da alcuni antenati funzionali degli anticorpi, presenti anche nel sangue e nel polmone, noti proprio per la funzione protettiva nei confronti di alcuni patogeni, dai virus più comuni come quello dell’influenza a citomegalovirus e funghi.
In questa direzione va una sfida della ricerca raccolta da Humanitas per affrontare il problema di salute globale rappresentato al momento dal Nuovo Coronavirus grazie al sostegno di Dolce&Gabbana che catalizza un’interazione virtuosa di ricerca scientifica fra due grandi istituzioni milanesi – Humanitas University e Università Vita-Salute San Raffaele – a servizio della salute di tutti, in collaborazione con l’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, centro di eccellenza del Paese e da sempre in prima linea.
Qual è il ruolo degli anticorpi nella cura e nella diagnosi del Coronavirus?
Innanzitutto è possibile isolare dai pazienti stessi le cellule B che generano anticorpi contro il virus e identificare i geni che li producono, ottenendo così una rappresentazione completa del repertorio anticorpale in risposta all’infezione. In questo modo è possibile produrre anticorpi umani in quantità illimitata, detti monoclonali, che riconoscono pezzi del virus.
Una strategia alternativa consiste nel cercare anticorpi adatti in «librerie» di geni umani disponibili grazie a tecniche di ingegneria genetica. Anche in questo caso il risultato finale sono anticorpi monoclonali umani che si possono produrre in quantità illimitata, diretti contro pezzi del virus. Ad esempio, si possono cercare anticorpi che riconoscono lo spike, una proteina che è una sorta di ancora che il virus usa per attaccarsi alle cellule del polmone profondo e danneggiarlo. Attualmente utilizziamo già anticorpi monoclonali ottenuti con tecnologie diverse per trattare molti tumori, malattie autoimmuni e infettive.
Su questa base, nel mondo, diversi gruppi stanno cercando di sviluppare anticorpi monoclonali umani contro il Nuovo Coronavirus. Tuttavia, non possiamo sapere a priori se si dimostreranno utili, perché in alcune situazioni, ad esempio nell’infezione da virus Dengue, possono facilitare l’entrata del virus. Per questo motivo, una volta generati, gli anticorpi candidati a diventare strumenti terapeutici vanno sperimentati come tutti i farmaci, con grande attenzione e rigore. Per questo ci vorranno, probabilmente, anni.
Ma gli anticorpi giocano un ruolo fondamentale anche quando si tratta di diagnosticare il virus e tracciarne la diffusione. Il test attualmente in uso per la diagnostica si basa sul tampone faringeo e sulla ricerca degli acidi nucleici del virus, che portano l’informazione genetica. Si tratta di un test relativamente costoso, che richiede un tempo significativo: pertanto, sul lungo periodo si tratta di un test insoddisfacente, perché – pensando al nostro Paese ma anche a quelli in via di sviluppo – abbiamo bisogno di test diagnostici il più possibile vicini al letto del paziente (o del candidato paziente), rapidi ed economici, utilizzabili facilmente su larga scala.
Misurare la presenza di anticorpi contro il virus, in un individuo e in una popolazione, è fondamentale per valutare se una persona è venuta a contatto con l’infezione e quanto questa si sia davvero diffusa all’interno della popolazione. La risposta anticorpale in un individuo costituisce una sorta di traccia del fatto che una persona sia entrata o meno in contatto con il virus. Ad esempio, quando esisteva il rischio di rosolia in gravidanza (oggi praticamente scomparso grazie al vaccino) non si andava a cercare il virus, ma la risposta anticorpale contro di esso e la tipologia di anticorpi prodotti. Così come, in caso di sospetta infezione virale da citomegalovirus o da virus di Epstein-Barr, non si cerca il germe, ma la traccia che questo ha lasciato nel sistema immunitario (appunto la presenza di anticorpi).
Si tratta dunque di sviluppare test di laboratorio standardizzati, riproducibili su larga scala, che danno la vera immagine epidemiologica dell’infezione e che ci dicono davvero quante persone sono entrate in contatto con il virus, dandoci, quindi, i numeri reali. Molti laboratori in tutto il mondo sono impegnati in questo sforzo.
In quanto tempo e con che chance sarà possibile trovare un vaccino?
Numerosi gruppi di ricerca al mondo sono impegnati a sviluppare un vaccino contro il Nuovo Coronavirus.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a una vera e propria rivoluzione nel modo in cui vengono messi a punto i vaccini: una volta era necessario il germe (il virus, il batterio). Grazie al contributo di Rino Rappuoli a Siena, oggi utilizziamo la cosiddetta reverse vaccinology che, sulla base dell’informazione genetica del virus, costruisce modelli strutturali da cui si identificano possibili componenti di un vaccino. Quest’ultimo può essere fatto in molti modi, con proteine o DNA. La prima parte dello sviluppo di un vaccino, vale a dire identificare un bersaglio contro cui dirigerlo e muovere i primi passi per metterlo a punto, è un processo rapido, che può richiedere pochi mesi. Le tappe successive, invece, sono molto più lunghe: prevedono prima lo studio in modelli sperimentali, essenziale per la sicurezza dei vaccini, e infine la sperimentazione clinica. È bene ricordare che gli studi di alcuni vaccini contro la SARS si sono fermati per problemi di sicurezza.
Il percorso per avere un vaccino, quindi, è lungo. Può richiedere qualche anno, inclusa la sperimentazione clinica. Per fare un esempio, il vaccino studiato e sperimentato più rapidamente è quello contro Ebola, che ha richiesto 2-3 anni.
Come il virus evolve con il cambio delle temperature?
Per il virus della comune influenza la situazione migliora con il cambio di stagione, sia perché le persone non si ritrovano più in ambienti chiusi, sia perché la popolazione che è stata esposta al virus ha prodotto una risposta immunitaria nei suoi confronti. Credo tuttavia che nessuno possa prevedere con certezza che cosa accadrà con questo nuovo Coronavirus.
In ogni caso, non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia perché siamo – e saremo in futuro – sotto costante minaccia di nuovi agenti patogeni che oltrepassano i continenti e viaggiano insieme a noi. La nostra cintura di sicurezza è la ricerca. Illudersi, come in passato, che una volta passata l’emergenza sia tutto risolto non può portare a nulla di buono.
STORIA
Michele A. Riva — Ricercatore di Storia della Medicina, esperto di prevenzione, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Dove e quando è nato il Coronavirus?
I Coronavirus sono virus responsabili di infezioni generalmente lievi, come il comune raffreddore. Negli ultimi due decenni, epidemie di due Coronavirus, conosciuti come Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus (SARS-CoV) e Middle East Respiratory Syndrome Coronavirus (MERS-CoV), sono state, però, responsabili di oltre 10 mila casi con tassi di mortalità pari a circa il 10 per cento per la SARS e del 37 per cento per la MERS.
Nel mese di dicembre 2019 sono stati riscontrati una serie di casi di polmonite di origine sconosciuta a Wuhan, capoluogo e città più popolosa della provincia di Hubei, in Cina. Tutti i casi presentavano le caratteristiche di un’infezione virale. Analisi approfondite condotte su campioni provenienti dal tratto respiratorio inferiore dei pazienti colpiti hanno evidenziato la presenza di un nuovo Coronavirus, denominato dai ricercatori «2019 Novel Coronavirus». L’origine del virus non è chiara, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che sia di natura zoonotica, ovvero dovuta a una trasmissione dagli animali all’uomo, così come è accaduto anche per la SARS e per la MERS. A oggi non è stato ancora possibile identificare con certezza il serbatoio animale del virus (la specie in cui il virus si è originariamente sviluppato) né l’ospite intermedio che ha permesso all’agente infettivo di passare dal suo ospite naturale all’uomo. Finora sono stati ipotizzati, tra i diversi animali, il pipistrello come serbatoio naturale e un particolare tipo di serpente, venduto nei mercati alimentari cinesi, come vettore. Si è, inizialmente, avanzata questa ipotesi perché i primi casi umani infettati lavoravano in un mercato cinese, dove il contatto tra animali e uomini avrebbe potuto determinare il salto di specie. A seguito di nuove informazioni che hanno portato a segnalazioni precedenti di casi a inizio dicembre, si è più recentemente ipotizzato che l’infezione possa essersi sviluppata nel mese di ottobre-novembre, in soggetti che non avevano frequentato il mercato di Wuhan, mettendo in discussione la precedente teoria.
Cosa è successo a Wuhan?
Il primo caso di infezione conclamata risalirebbe all’inizio del mese di dicembre, a cui è seguito un primo cluster di soggetti, la maggior parte dei quali aveva una connessione con il mercato ittico della città di Wuhan. Il 31 dicembre 2019, le autorità sanitarie cittadine hanno informato la popolazione residente a Wuhan della nuova infezione, sostenendo che si trattava di una patologia controllabile e senza chiara evidenza di una trasmissione interumana. Nella stessa data, l’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata informata della nuova infezione. Il primo decesso connesso al virus è stato quello di una sessantunenne, ricoverata a fine dicembre nell’ospedale di Wuhan e morta il 9 gennaio 2020. Solo a partire dal 20 gennaio le autorità cinesi hanno dichiarato la trasmissibilità dell’infezione da uomo a uomo, portando il governo di Wuhan a mettere in atto alcune importanti misure di contenimento dell’infezione, quali la sospensione delle celebrazioni del Capodanno cinese. Tre giorni dopo, è stato annunciato lo stato di quarantena della città, con il blocco di tutti gli ingressi e le uscite da Wuhan. Le autorità civili hanno decretato, quindi, la sospensione totale del traffico privato all’interno della città. Ha preso subito avvio la costruzione di due ospedali da campo cittadini, aperti in sole due settimane dall’inizio dei lavori. Alla fine del mese di gennaio, anche in altre città della provincia di Hubei sono state applicate le stesse misure di quarantena. Allo stesso modo, anche Macao e Hong Kong hanno iniziato a prendere provvedimenti restrittivi. Molti Paesi del mondo hanno cominciato a imporre limitazioni ai voli in partenza dalla Cina e misure di controllo della temperatura corporea negli aeroporti. Alla fine di gennaio si sono registrati i primi casi di contagio confermati negli Stati Uniti, in Canada e in Europa, compresi due casi di persone infette in Italia (30 gennaio). Il primo decesso, per il virus, fuori dalla Cina, è stato registrato nelle Filippine il 2 febbraio. Nelle successive settimane, casi di infezione si sono riscontrati anche in Africa (Egitto) e in Medio Oriente (Iran).
Quali sono le altre grandi epidemie della storia?
Le prime epidemie della storia si sono verificate nei periodi caratterizzati da una maggiore concentrazione della popolazione all’interno delle città. Una delle prime epidemie di cui è rimasta una testimonianza è la peste di Atene, che colpì la città greca durante il secondo anno della Guerra del Peloponneso (430 a.C.). Nel periodo dell’Alto Medioevo, le epidemie in Europa si presentarono in misura minore, probabilmente in seguito a una riduzione della popolazione residente nelle città, saccheggiate dalle invasioni barbariche. Le epidemie di malattie infettive ricomparvero con la nascita dei Comuni. Celebre è l’epidemia di Peste Nera, che colpì tutto il continente europeo tra il 1347 e il 1353, uccidendo tra i venti e i venticinque milioni di persone, un terzo della popolazione europea dell’epoca. Fu proprio in questo periodo che fu messa in atto la prima quarantena della storia, nella città dalmata di Ragusa (Dubrovnik), nel 1350. Un’altra malattia che si manifestò nel Medioevo fu il tifo esantematico, detto anche tifo petecchiale, che colpiva le popolazioni più povere, soprattutto nei periodi di guerra o carestia. Le epidemie di peste bubbonica si verificarono frequentemente in Europa agli inizi dell’età moderna, come la peste di San Carlo (1576-1577) e la peste manzoniana (1629-1633). Il Settecento fu caratterizzato dalle frequenti epidemie di vaiolo, soprattutto nelle campagne. La scoperta della vaccinazione antivaiolosa da parte di Edward Jenner, nel 1798, debellò per la prima volta una patologia infettiva, portando alla sua eradicazione mondiale nel 1980. Negli anni della Rivoluzione industriale, la tubercolosi colpiva i lavoratori e le loro famiglie nelle grandi città, mentre il colera, proveniente dall’Asia, imperversava epidemicamente in tutta Europa. Tra il 1918 il 1920, si verificò una pandemia influenzale particolarmente mortale, conosciuta con il nome di Spagnola, che portò alla morte decine di milioni di persone nel mondo.
Perché il Coronavirus è nato proprio in Cina dove, nel 2002, si era diffusa la SARS? C’è una relazione?
La SARS, nota anche come Sindrome Respiratoria Acuta Grave, è una forma severa di polmonite causata dal virus SARS-CoV. Sviluppatasi nel novembre 2002, nella provincia meridionale del Guangdong in Cina, si concluse nel luglio 2003, provocando 8.096 casi e 774 decessi con un tasso di mortalità di circa il 10 per cento. Sia COVID-19 che SARS-CoV sono Coronavirus, originati in Cina. I virus di questa tipologia, che danno generalmente forme lievi come il banale raffreddore, possono diventare particolarmente virulenti e pericolosi, quando fanno un salto di specie da animale a uomo. Così è avvenuto per la SARS, il cui serbatoio animale è stato identificato nello zibetto, e lo stesso è accaduto per il Nuovo Coronavirus, il cui serbatoio e vettore non sono ancora noti. L’origine geografica comune dei due virus è probabilmente legata al fatto che in alcune zone della Cina è più comune la promiscuità tra animali e uomini. Animali selvatici vengono spesso venduti in mercati affollati, dove è più facile che si verifichi il salto di specie da animale a uomo. Le sindromi sono simili anche dal punto di vista del quadro clinico, caratterizzato per entrambe dal rischio di sviluppare gravi polmoniti virali e quadri di insufficienza respiratoria resistenti alla terapia. Non è un caso che il virus venga ora indicato con il termine SARSCoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2). I due virus presentano anche alcune differenze, soprattutto in termini di mortalità e di contagiosità. Il Nuovo Coronavirus presenta un tasso di mortalità cinque volte inferiore rispetto alla SARS. Ciononostante, il Nuovo Coronavirus ha superato la SARS per numero di individui infettati e per numero di decessi, a causa della bassa aggressività, di un periodo di incubazione più lungo e di una maggiore contagiosità.
Cos’hanno le grandi epidemie della storia in comune con il Coronavirus e in cosa si differenziano?
È importante distinguere il concetto di epidemia e di pandemia, che spesso vengono usati come intercambiabili, anche se non lo sono. Si parla di epidemia, quando il numero di casi di una malattia aumenta rapidamente in breve tempo, interessando un numero elevato di persone all’interno di una comunità. Le cause di un’epidemia possono essere diverse, come ad esempio una maggiore aggressività e resistenza di un patogeno già conosciuto. Può accadere, come nel caso del Coronavirus, che una popolazione si trovi per la prima volta ad affrontare un agente biologico che non conosceva in precedenza, sviluppando un’epidemia. La pandemia prevede, invece, che l’agente patogeno si diffonda in una zona più vasta del mondo. Attualmente, al di fuori della Cina, il numero di nuovi casi di infezione da Coronavirus è ancora relativamente basso e questo porta l’Organizzazione Mondiale della Sanità ad attendere a definire la malattia da COVID-19 come pandemia.
L’infezione da Nuovo Coronavirus condivide con le precedenti epidemie e pandemie della storia la preoccupazione e la paura nei confronti di un agente invisibile all’occhio umano. Questa paura porta a ricercare un nemico visibile, che può essere l’untore di manzoniana memoria o il cinese, il veneto e il lombardo nell’attuale epidemia di Coronavirus. Come nel passato, l’epidemia ha le sue vittime tra i medici e gli infermieri, che rischiano la vita tutti i giorni per curare i malati e arginare la diffusione del virus. La riconoscenza nei loro confronti e la fiducia nella scienza sono tipiche solo delle epidemie più recenti, dal momento che nei tempi passati i medici preferivano fuggire quando scoppiava una pestilenza. Nell’attesa di un vaccino o di un nuovo farmaco, la misura antica della quarantena risulta ancora l’unica valida, anche se può creare esasperazione nella popolazione, portando a situazioni di panico e psicosi. Paura, discriminazione, riconoscenza, fiducia ed esasperazione erano tutti sentimenti presenti anche nelle epidemie del passato, ma vengono oggi amplificati in quella che è la prima epidemia dell’epoca social.
Fonte: 50 domande sul Coronavirus. Gli esperti rispondono a cura di Simona Ravizza con il coordinamento scientifico di Sergio Harari.
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